Canto I - Introduzione
Per opinione unanime dei critici i canti introduttivi della Divina
Commedia, mentre ci darebbero la chiave interpretativa di tutto il
poema, non riuscirebbero a raggiungere una persuasiva individuazione di
personaggi, caratteri, situazioni. Il giudizio del Croce sul primo canto
può rendere ragione di questa valutazione negativa: " Specialmente il
primo canto dà qualche impressione di stento: con quel "mezzo del
cammino" della vita, in cui ci si ritrova in una selva che non è selva, e
si vede un colle che non è un colle, e si mira un sole che non è il
sole, e s’incontrano tre fiere, che sono e non sono fiere, e la più
minaccevole di esse è magra per le brame che la divorano e, non si sa
come, " a vivere grame molte genti". Tanta severità non è certo fatta
per invogliare alla lettura chi intenda accostarsi al << poema
sacro " per la via additata dal suo autore, affrontando cioè per prima
cosa l’intrico di simboli che ne adombrano il mistico significato. Una
più cordiale adesione alla parola del Poeta, pur nel suo laborioso
maturare, gioverebbe senza altro meglio allo scopo.L’ostacolo maggiore
per noi, nel seguire Dante agli esordi del suo capolavoro, è senza
dubbio costituito dall’allegoria, questo schema interpretativo che è
stato argutamente definito da uno storico la << pianta parassita
nella serra della tarda antichità " e che ritroviamo in tutte le
manifestazioni dell’arte del medioevo. La nostra mentalità positiva,
tutta volta al concreto e all’"effettuale", ben difficilmente trova di
che nutrirsi nel miracoloso tessuto di rispondenze che la mente
medievale scorgeva dappertutto nell’universo. Perduto il senso del
"sacro", stentiamo a scorgere nelle cose la traccia di un Creatore, la
misura di un ordine sottratto al fluttuare degli eventi. Ai tempi di
Dante non era così. Il linguaggio dei simboli era di dominio comune,
l’uomo era avido di "interpretazioni" che colmassero l’infinita distanza
che lo separava da Dio. Ma anche a noi l’allegoria non può non apparire
legittimata in pieno, là dove crea Un linguaggio autonomo, non
vincolato alla lettura " in chiave " che essa propone. Se cioè essa non
esaurisce le sue risorse espressive nella delimitazione del proprio
ambito di concetti, ma anzi, come quasi sempre in Dante, conferisce alla
parola, coll’immetterla in una prospettiva infinita, una dimensione
espressiva che altrimenti non avrebbe, allora dobbiamo riconoscerle il
diritto a una considerazione non prevenuta sul piano della poesia. Forse
la poesia dei canti introduttivi della Commedia va cercata nel tono
particolarissimo che l’uso dell’allegoria conferisce alla parola di
Dante: tono severo, assorto, meditativo in cui rivive, riportato entro
una prospettiva medievale, l’alta ispirazione dell’Antico Testamento."
Il verso con cui si apre l’Inferno, e insieme la Divina Commedia, emerge
da una memoria tutta percorsa da echi biblici e profetici. Il testo di
Isaia " ego dixi in dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi "
(XXXVIII, 10), direttamente citato dalle parole di Dante, e il testo del
Salmo LXXXIX, 10 "dies annorum nostrorum sePtuaginta anni ", da esse
indirettamente alluso, evocano un’atmosfera solenne in cui il discorso
acquista come una dignità liturgica, il sigillo sacro di un annunzio
misterioso." (Getto)Osservazioni analoghe si possono estendere al I
canto nel suo complesso.Tra i momenti lirici di più agevole lettura
spiccano, in questo canto, il drammatico paragone del naufrago, la
paradisiaca apparizione della luce sulla cima del colle, la dolente
elegia di Virgilio consapevole di essere per sempre bandito dal premio
dei beati (oh felice colui cu’ivi elegge!). Dal canto suo la
rappresentazione delle fiere, pur rispondendo a criteri allegorici, è
tutt’altro che fredda e classificatoria. Non possiamo vedere in esse
soltanto " tre motivi da miniatura medievale e da bestiario".Ancora il
Getto, svolgendo alcuni spunti chiarificatori del Momigliano, per il
quale nella presentazione delle tre fiere "si rivela la capacità di
Dante di cogliere le linee significative di un essere vivente, di darne,
per così dire, la definizione pittorica", precisa: "Dante non ci
presenta degli animali rigidi, imbalsamati, ma al contrario degli
animali in movimento, vivi... La lonza è tutta balzante leggerezza e
morbida agilità e sferzante eleganza... Il leone, a sua volta, ha
qualcosa di statuario, un’imponenza monumentale dà cui si sprigiona però
una forza compressa, una fierezza energica... La lupa, infine, assume
un profilo nervoso, sfinito e teso a un tempo... Essa è definita come la
bestia sanza pace: un tratto che, di nuovo, coglie l’intimità e insieme
il gesto dell’animale, il suo istinto e il suo agire, l’insaziabile
cercare". E’ vero che le tre fiere sono nate nella fantasia del Poeta
non da una presa diretta di contatto con la natura, ma da una sentita
rielaborazione della Sacra Scrittura (Geremia, lamentando la corruzione
del regno di Giuda, dice: "Ecco perché il leone della foresta li uccide,
il lupo del deserto li sbrana, il leopardo è in agguato davanti alle
loro città"; V, 6). Ma - conclude il Getto - "l’operazione poetica
svolta da Dante" consiste qui in una "ricerca che è simultaneamente
intellettuale ed estetica", così che, "come nel linguaggio biblico, in
genere, e soprattutto in quello profetico, si determina una specie di
continuo spostamento dal primo piano dell’immagine a quello più lontano e
segreto del pensiero". Si trattava "da un lato di umanizzare, di
rendere passionali, viziose le tre fiere, e d’altro lato di dare alle
sue idee di peccati un carattere bestiale, sottolineandone l’aspetto
disumano, ferino". La coordinazione tra figura e figurato non è pertanto
riuscita arbitraria sul piano della poesia.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento